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“Lo spirituale nell‘arte”, testo che Kandinsky pubblicò nel 1910, ispira il titolo del volume ed è il punto di partenza per la serie di analisi che i diversi autori propongono. Nelle parole dell‘artista russo, Caramel ravvisa l‘espressione di quel “filo rosso” che manifesta la tensione, intrinseca all‘artiste, verso la dimensione trascendente. E che attraversa persone e sensibilità diverse, che si muovono anche lontano degli ambienti cattolici, o più in generale cristiani.
Lo stesso Kandinsky aderì a correnti di pensiero esoterico quali la Teosofia e l‘Antroposofia: la figura del grande pittore russo offre lo spunto a Caramel per allargare il discorso su quegli ambienti che vivono al di fuori delle religioni “istituzionalizzate”. A partire da Ernesto Bonaiuti, prima sacerdote cattolico, poi scomunicato e sospeso  “a divinis” per “modernismo”, che nelle sue Edizioni di Religio pubblicò lo scritto di Kandinsky, tradotto  da Giovanni Colonna di Cesarò.
A Bonaiuti è legato anche Franco Ciliberti (il primo fu correlatore della tesi di laurea del secondo) che condivide con Kandinsky l‘idea dell‘importanza del ritorno al primitivismo, quale via di allontanamento dal razionalismo ottocentesco.
Seguendo questo filone di pensiero collegato al simbolismo russo, alla mistica orientale e all‘esoterismo, si arriva al Futurismo,  che non fu esente da tali influssi.
 
Lo “spiritualismo futurista” è affrontato nel saggio di Francesco Tedeschi, il quale nota come le scoperte scientifiche caratterizzanti il periodo a cavallo tra Otto e Novecento possano esser da alcuni interpretati in chiave magica. Tanto che Boccioni nel 1908 annotò nel suo taccuino una preghiera alla “Grande madre”: «Possa io mantenere l‘umiltà e la forza di presentarmi ai sacri misteri come un innocente senza ambizioni e falsità. Tutto quello che uscirà dalle mia mani sia un canto di adorazione di esaltazione dal filo d‘erba all‘albero...».
Al centro di tale corrente del primo Futurismo si trova Julius Evola che nel 1917, nella sua “Ouverture alla pittura della forma nuova” scrive: «Forma spirituale, perché non è la rappresentazione intellettiva dell‘oggetto né l‘interpretazione trascendentale dell‘oggetto né alcuna simultaneità di forma colore e pensiero avente base nell‘oggetto che la costituisce, bensì qualcosa che è assolutamente fuori dall‘oggetto, che è rinchiuso in noi».
Proseguendo questa tendenza che porta l‘indagine sul soggetto e sulle idee, anche l‘universo meccanico viene trasfigurato come segno di una nuova possibile spiritualità. Al proposito Enrico Prampolini nel 1924, in “Architetture spirituali”, interpreta il nuovo universo meccanico come «Rivelazione della perpetua funzione dell‘energia spirituale verso l‘evoluzione creatrice. Rivelazione dell‘enigma eterno tra mondo interiore e mondo esteriore. Rivelazione attraverso la sintesi della percezione pura....».

Ma ovviamente l‘impulso più propriamente religioso nell‘ambito futurista proviene da autori personalmente legati alla cultura cattolica. Tra i quali spiccano Dottori, Fillia, Severini.
 
Quest‘ultimo già nel ‘25 intraprende l‘opera di decorazione di alcune chiese nel cantone svizzero di Friburgo. E ovviamente dopo il Concordato, quando la possibilità di committenze ecclesiastiche diventa più consistente in Italia, cresce l‘apertura del Futurismo verso l‘ambiente culturale cattolico. Testimoni ne sono la “Mostra futurista di Aeropittura e di Scenografia” nella Galleria Pesaro di Milano (settembre 1929) e soprattutto l‘Esposizione Internazionale d‘Arte Sacra Moderna a Padova nel 1931; a quest‘ultima parteciparono Casorati, De Pisis, Oppi, Gigliotti, Boldrin, Maraini, Peri e diversi altri. E nell‘ambito della collaborazione tra arte e architettura si segnala soprattutto l‘intesa tra Fillia, Giuseppe Oriani e Alberto Sartoris, riguardo alla progettazione di chiese di stampo futurista.
  
Ma il dialogo tra arte e Chiesa non è semplice. Pio XI nell‘ottobre 1932 critica con durezza l‘arte e l‘architettura contemporanee e insiste «che tale arte non sia ammessa nelle nostre chiese e, molto più, non sia chiamata a costruirle...». L‘alzata di scudi del Papa ha l‘effetto di alimentare un dibattito più intenso, che coinvolge lo stesso Marinetti, il quale risponde mostrando il desiderio di dialogare. Come riferisce Tedeschi, Marinetti afferma «che l‘architettura futurista non può limitarsi alla nudità dell‘architettura razionalista, ma deve valersi dei mezzi offerti dai nuovi materiali per creare effetti che tocchino anche i sensi dei fedeli, così come, per quanto riguarda le espressioni figurative, giudica che l‘errore del realismo, che in chiave moderna finisce col deformare i soggetti, è il pericolo al quale la pittura futurista ha ovviato nel tendere verso altre forme, che al meglio sono state espresse da Fillia...». E il dibattito diventa dialogo: nel 1935 la Biblioteca Ambrosiana di Milano ospita una mostra dedicata espressamente all‘arte futurista.
 
Il saggio di Gian Alberto Dell‘Acqua (“Maritain e Severini: un confronto”, uno dei suoi ultimi, pubblicato postumo), è breve e autobiografico. Dell‘Acqua rimanda agli anni ‘30, quando egli si laureò all‘Università di Pisa in una temperie dominata dal pensiero estetico di Croce e dall‘attualismo teologizzante di Gentile. In tale contesto il pensiero cristiano resta ai margini: «il prevalere tra noi della cultura idealistica non poteva che ostacolare... la diffusione di un pensiero estetico volto ad affermare, rifacendosi ai principi tomisti, il carattere intellettuale dell‘arte e inseparabilmente la concretezza dei procedimenti produttivi attuati nella materia dagli artisti. Non per nulla Maritain obiettava a Croce che il grande errore della sua posizione neohegeliana consisteva nel non riconoscere nella contemplazione artistica l‘aspetto intellettuale insieme a quello intuitivo». Sullo sfondo di tale quadro culturale, Dell‘Acqua introduce il forte legame che unirà Severini a Maritain. La vicinanza col pensatore francese porterà Severini non solo a recuperare le sue radici formative che si alimentano nel Quattrocento toscano, ma anche a impegnarsi nell‘individuare modalità espressive consone al tempo presente.
 
Di questo parla lo scritto di Cecilia De Carli, intitolato: “Dal platonismo pitagorico al neo-tomismo maritainiano. Gino Severini: pittura murale nelle chiese della Svizzera romanda (1924-1934)”. L‘evoluzione di Severini è il frutto di un percorso di maturazione culturale: dal furore dei primi tempi del futurismo movimentista e propagandista, alla pacatezza del ragionamento che indaga sui fondamenti della pittura, e in generale sul senso dell‘essere. Severini infatti è artista e critico allo stesso tempo. E scrive diversi saggi in cui racconta il suo interrogarsi. «Il lento processo di elaborazione verso quell‘ideale normativo che Severini formula nel suo saggio Du Cubisme au Classicisme (Esthétique du compas e du nombre), pubblicato nel 1921 a Parigi... segna, nella vicenda del pittore, una fase di cerniera che fa corpo da una parte con l‘esigenza di ricapitolare tutte le acquisizioni dell‘avanguardia futurista e cubista, compreso lo scardinamento dell‘unità di tempo e di luogo e la conquista della sua autonomia, e dell‘altra con l‘avvio di un nuovo classicismo, che tuttavia non ha nulla a che fare con un ritorno accademico ai modelli esemplari...». La ricerca volge alla verità che sottende la natura: si rielaborano le domande: che cosa regga l‘universo, che cosa lo generi, come l‘arte possa ripercorrere i passi della originaria creazione... E così dalla ricerca delle regole sottostanti alla natura e alla sua rappresentazione - e dalla ripresa del pensiero degli antichi Greci sull‘argomento - Severini sembra ripercorre le tappe seguite dalla filosofia, da Pitagora a Platone, ai neoplatonici per avvicinarsi al cristianesimo. A Parigi, dove vive, incontra Gabriel Sarraute, giovane studioso carmelitano, che sarà cruciale per accompagnare il pittore nella sua carriera artistica vissuta integralmente, con autentica passione. Questo porta ben presto a una decisione chiara: a dieci anni dalle sue nozze civili con Jeanne Fort, nel ‘22 Severini sposa la sua consorte in chiesa.
E tale è l‘amicizia maturata tra lui e Sarraute, che quando questi nel ‘23 è chiamato a svolgere la propria missione a Carcassonne, decide di affidare l‘artista italiano a Maritain, docente all‘Istituto Cattolico di Parigi. Una scelta quanto mai propizia, tanto più che la casa di Jaques e Raissa Maritain diviene cenacolo di intellettuali di varia estrazione. Severini segue Maritain come si segue un maestro: ne studia i testi e si addentra nella filosofia tomista. Come spiega la De Carli: «Se l‘Arte è una virtù intellettuale, essa tuttavia appartiene all‘ordine pratico e non speculativo. In tale ordine pratico Maritain recupera una distinzione fatta dagli antichi tra “agire” e “fare” che gli permette di arrivare all‘affermazione che “verità in arte è conformità ai suoi fini e ai suoi mezzi”, asserzione che si concilia con l‘autonomia propugnata dalla moderna riflessione sull‘arte». Di qui la concezione dell‘artista come “creatore”, non “imitatore” della natura.
Ma in Maritain, oltre a una guida verso la maturazione nella fede, Severini trova una persona che lo introduce a tante nuove conoscenze negli ambienti cattolici francesi. In questo modo arriva a stringere amicizia con l‘architetto Fernand Dumas, che stava realizzando una nuova chiesa a Semsales, nella Svizzera romanda. E che, apprezzato l‘impegno spirituale del pittore italiano, gli chiede di affrescarne le pareti. Scrive De Carli: «Perfettamente conforme con l‘orientamento di Dumas, che s‘ispira all‘architettura della basilica paleocristiana, Severini segue nel partito decorativo... con soluzioni che richiamano l‘arte ravennate, ma la cui scansione è di matrice cubista». La lezione classica ritorna, rivestita di modernità. E l‘intesa maturata sul piano teorico tra artista e architetto, porta a un progettare dialogato. Tale che Severini teorizza come all‘artista non spetti di sovrapporsi o di “sfondare” con le sue pitture la materia, in quanto l‘opera architettonica deve manifestarsi come unità. Ergo, l‘arte deve armonizzarsi con l‘architettura, e l‘artista deve impegnarsi nell‘aspetto «collettivo e sociale che questa esperienza pittorica contempla».
 
Ne risulta una pittura che, pur nella sua attualità, riecheggia la corposa autenticità delle figurazioni paleocristiane in tal modo superando il «mentalismo dei greci e il sensualismo mimetico dei romani».
Seguiranno altre chiese, con Dumas e con altri architetti: a La Roche (cantone di Friburgo), a Tavannes (Berna),  a Friburgo, a Losanna. Tutte opere compiute nel contesto di un intenso dialogo che coinvolge non solo l‘artista e l‘architetto, ma anche Maritain, quale filosofo e guida spirituale.
 
Sul nesso tra arti e filosofia nell‘Italia del ventennio fascista si esprime Elena Di Raddo nel saggio “I Valori Primordiali di Franco Ciliberti”. Perché il primordialismo porta a indagare sul sentimento, sulla mistica e quindi anche sulle religioni, in quei circuiti intellettuali che hanno un asse privilegiato tra Milano e Como, ove si ritrovano personaggi vicini al regime quali Giuseppe Terragni, antifascisti quali Raffaele De Grada, “fascisti critici” quali Massimo Bontempelli, ebrei quali Adriano Ghiron ed Ernesto Nathan Rogers, cattolici quali Cesare Cattaneo e Mario Radice. Uniti dal comune interesse per l‘estetica e per i nessi che collegano miti e religioni, a volte divisi dallo specifico approccio seguito. Così si espresse Ciliberti in una conferenza svolta a Como, sua città natale, nel ‘42 e intitolata La storia degli ideali dalle origini del cristianesimo a oggi: “Tutta la storia universale non è altro che la storia della meditazione e della contemplazione delle anime superiori le quali, ritrovando Dio in ogni cosa, riportano le cose alla loro sorgente divina”. Spiega la Di Raddo: «Egli crede profondamente che non soltanto l‘opera del mistico, ma anche quella dell‘architetto o dello scultore riconducano le cose a Dio. Un paesaggio dipinto è dunque, per Ciliberti, una “concezione”, mentre un quadro astratto è la “meditazione” sul mondo che, proprio attraverso l‘espressione artistica, si “purifica” e “assume una nuova impronta”». In questo distinguendosi dal Bontempelli che propende per una visione in cui la magia è elemento fondamentale per mediare l‘esperienza estetica. Al dissidio col pensiero magico, in Ciliberti, si somma anche l‘incapacità di accettare il realismo cattolico. Alla concretezza che deriva dal messaggio dell‘incarnazione e dalla capacità di muoversi sui sentieri percorsi dalla storia, sostenuta da Cattaneo e riaffermata da Radice nelle sue opere artistiche per alcune chiese moderne, Ciliberti preferisce l‘ambizione purista dedita alla «contemplazione del primordio». «La sua intransigenza - conclude la Di Raddo - e il suo idealismo non gli hanno permesso mai di dare corpo concreto alle sue teorie e alla sua vita, terminata con il suicidio, e hanno contribuito anche all‘oblio del suo pensiero che si è perso per raggiungere l‘indistinto e unitario universale».
 
Il saggio conclusivo, di Giuseppe Lupo, è dedicato alla rievocazione di Edoardo Persico (“Domani, forse, sarà una bandiera”. Il 1936, Persico e i letterati), intellettuale napoletano che giunse a Milano nel ‘29, fondò la galleria d‘arte “il Milione” e divenne direttore della rivista Casabella, nel ‘34 aderì al movimento architettonico razionalista e morì in modo misterioso nel ‘36. Subito riconosciuto, ha scritto Aligi Sassu, come “profeta della nostra giovinezza”. Mentre Sinisgalli lo considera “il nostro Péguy”. «La Tour Eiffel, la fabbrica del Lingotto a Torino, l‘elogio del principio di utilità e di organizzazione vigente negli Stati Uniti... rappresentano tre icone care a Persico: l‘architettura, l‘industria, il taylorismo» scrive Lupo, evidenziando in Persico la volontà di innovazione che accoglie suggestioni che giungono da lontano - in un contesto, come quello dell‘Italia fascista, volta all‘autarchia - e attraverso la mediazione di una visione del mondo che, scrive Lupo, è «figlia ideale del pensiero agostiniano e quindi prologo terreno alla Civitas Dei».
 


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 01-FEB-16
 

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