Lo Spirito dell'Architettura

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Lo Spirito dell'Architettura
David Banon e Déborah Derhy
» Leggi l'intervista al prof. Stefano Levi Della Torre
"La complessità nella cultura ebraica"  
 


06/08/2014
Scheda libro

06/08/2014
L'argomento

06/08/2014
Chi sono gli Autori

06/08/2014
Una citazione

06/08/2014
Il contenuto

06/08/2014
Valutazione
Indice
 
 


06/08/2014
Scheda libro

Titolo: “Lo Spirito dell'Architettura”
Autore: David Banon, Déborah Derhy
Editore: Qiqajon (2014)
(prima edizione francese nel 2008, “Le tour et le tabernacle 'Migdal' et 'Michkan'”)
Numero pagine: 160
Prezzo: 15,00 euro
 

06/08/2014
L'argomento
Un confronto ragionato e studiato sulla base del vecchio testamento, tra la costruzione della torre di Babilonia da un lato, e dall'altro il seguito di realizzazioni che portano alla costruzione del tempio di Gerusalemme, a partire dal tabernacolo ( miškan ), in quanto “casa” della parola di Dio. Da un lato il costruire umano per la gloria dell'essere umano, dall'alto il costruire seguendo le indicazioni e l'ispirazione che giunge attraverso la Parola di Dio. Da un lato l'atteggiamento orgoglioso, che si traduce anche in sopraffazione; dall'altro lato l'atteggiamento umile che diviene servizio per i fratelli. L'azione del costruire è indagata per i suoi significati profondi, giungendo alla sua radice originaria, e in quanto tale è considerata all'origine della civiltà. Per conseguenza il modo di costruire, ovvero l'atteggiamento che tengono i costruttori, risulta essere la prima e principale garanzia di quello che sarà il risultato finale.

 

06/08/2014
Chi sono gli Autori

David Banon è direttore del Dipartimento di studi ebraici e giudaici dell'Università di Strasburgo e docente invitato nell'Università ebraica di Gerusalemme e nell'Università di Losanna. La sua specializzazione è il midrash, l'esegesi biblica; è studioso anche dell'opera di Emmanuel Lévinas, che tra l'altro è stato uno dei suoi relatori di tesi dottorale insieme con Henri Meschonnic, Robert Martin-Achard e George Steiner.
Tra le sue opere: Judaïsme et christianisme, entre affrontement et reconnaissance, con Shmuel Trigano e Pierre Gisel (Parigi, 2005), Le Juste vivra de sa foi, (Habacuc 2,4), Études d’histoire de l’exégèse, con la direzione di Matthieu Arnold, Gilbert Dahan e Annie Noblesse-Rocher (Parigi 2012).
Déborah Derhy ha studiato con David Banon presso l'Università di Strasburgo e attualmente si occupa di traduzione dall'ebraico al francese.
 
 

06/08/2014
Una citazione
«È inutile cercare di stabilire un “collegamento” con il mondo celeste. Il tentativo umano di accostarsi a Dio non deve dispiegarsi nello spazio. L'uomo può ritrovare il divino vicinissimo a sé e non altrove, non deve cercarlo a tutti i costi lontano dall'umano e da ciò che lo riguarda. [Élie] Munk a questo proposito ricorda il pericolo di credere che Dio si trovi altrove: “Quando gli altri popoli cercavano i loro dèi, uscivano dall'ambito umano, credendo di trovarlo più facilmente nella natura. Certo, Dio non può essere individuato, ma egli è anche molto più vicino a noi, in tutto il suo splendore, al cuore stesso di una semplice e normale vita umana” [Munk su Gen 8, 20], nel volto dell'altro, dello straniero, della vedova e dell'orfano. Quando non si accetta di credere che Dio è vicino all'uomo si incorre nel paganesimo, nell'animalismo, e via dicendo. Gli uomini di Babele hanno ignorato l'onnipresenza di Dio; essi l'hanno collocato nel cielo, forse perché non avevano consapevolezza della provvidenza e Dio sembrava loro lontano, assente. Con il miškan si sottolinea, al contrario, il fatto che la presenza divina è in mezzo agli uomini: “Essi mi faranno un santuario e io risiederò in mezzo a loro (betokam)”. (Da pag. 98).
 

06/08/2014
Il contenuto


Dialogo o Babele? L'argomentazione si dipana secondo un confronto continuo tra il tabernacolo (miškan) e la torre ( migdal): il primo incarna il dialogo, la seconda è espressione di orgoglio che porta alla dissoluzione.
Secondo quanto espresso nel Pentateuco, il tabernacolo è compiuto per accogliere la Parola di Dio, la torre perché l'uomo intendeva “farsi un nome” ovvero acquisire fama nella storia.
Nella Genesi a lungo e dettagliatamente di parla del tabernacolo, mentre Babele è descritta con poche parole e in modo enigmatico. Sono le uniche due costruzioni di cui si riferisce nel Pentateuco, a parte l'arca di Noè. Ma tabernacolo e torre non sono fatti per essere abitati dall'uomo; infatti la seconda è intesa per innalzare l'uomo, il primo per accogliere l'alterità.
L'importanza del costruire – argomenta Banon - è evidente dal fatto che è questa l'azione che fa entrare l'uomo nella storia: prima che nascessero le città c'era solo preistoria. Con le città sorge la civiltà, che comporta il vivere in luoghi comuni ma in case proprie di ciascuno. E non a caso il modo di costruire e abitare esprime pure con chiarezza il tipo di società in cui si manifesta: oggi lo si vede per esempio nella società collettiva che si riflette nei kibbuz che erige, ed è diversa da quella collettivizzata imposta dal comunismo e rappresentata dai palazzoni monotoni e ripetitivi, a sua volta diversa da quella borghese delle società liberali con la sgargiante proliferazione di costruzioni che esprimono la ricchezza dei privilegiati.
E quali erano le società che hanno dato luogo a Babele da un lato e al tabernacolo dall'altro?
Nella traduzione ebraica il racconto sulla torre di Babele è intitolato “la generazione della dispersione”, che evidenzia di quella società l'incapacità di stare unita: la mancanza di solidarietà.
Ma entrambe le costruzioni pongono il problema del rapporto tra l'umanità e quel che la trascende.
E se da un lato c'è un santuario costruito per servire Dio secondo le sue indicazioni, ovvero frutto del rivolgersi del Creatore al creato, dall'altro c'è il tentativo dell'uomo di arrivare in cielo per raggiungere Dio con forze proprie. La torre non è necessaria per l'insediamento umano, ma soddisfa solo l'ambizione di “toccare il cielo”.
Per questo la Torah «non esalta» la costruzione delle torri (quali erano le ziggurat mesopotamiche usate come osservatori stellari) e «il giudizio negativo che esprime sull'impresa di Babele contrasta con la fierezza con la quale i popoli dell'epoca guardavano a costruzioni del genere». Ma queste erano intese a cancellare la separazione tra l'umano e il divino, e non potevano essere apprezzate nella sacra scrittura.
Non solo, nella costruzione della torre il singolo era ridotto a manodopera, inserito nella massa e finiva per avere un valore minore di quello attribuito a quanto produceva (il mattone era considerato più pregiato della vita dei lavoratori). Alla costruzione del  miškan invece si impegnano artigiani ognuno con la propria abilità, e lavorano il legno, le stoffe, le pelli, il ferro. Così che si compone un'alleanza tra i diversi elementi della natura (regno minerale, vegetale, animale), Dio e l'essere umano  che agisce seguendone le indicazioni.
Babele finisce anche per distorcere l'opera tecnologica: gli artefici di Babele, attribuendo a sé stessi il merito del lavoro che compiono, si innamorano della loro tecnologia, e finiscono per divenirne schiavi. Anziché celebrare la tecnica come dono ricevuto, se ne gloriano come frutto del proprio ingegno.
Per quanto anche Israele sia stata dotata di edifici importanti e centrali per la religione, quali il tempio di Gerusalemme, sostiene Banon, «l'ebraismo ha però affermato la superiorità di altri valori rispetto all'architettura: la vita, il tempo».
Laddove invece, chi perde di vista la gerarchia dei valori si inoltra sulla via della corruzione. Esempio di questo è Nimrod, il promotore della torre di Babele: prima pieno di buone intenzioni e dedito a offrire sacrifici a Jaweh poi, invaghito dei propri successi, li attribuisce solo a sé medesimo. «Per evitare tale deriva, Dio nega a Israele l'iniziativa di una costruzione e ordina di fabbricare il miškan».
Si pone quindi il problema se il tabernacolo sia necessario perché l'uomo non è capace di servire Dio col cuore e col pensiero e di concepire il culto se non in un luogo determinato, oppure se esso sia da considerarsi, in quanto forma materiale del culto, una superiore  manifestazione di fede. Il tabernacolo è visto da alcuni come dono offerto perché l'uomo non ricada nel culto al vitello d'oro, da altri è inteso come da sempre presente nel piano  di Dio per l'uomo. Secondo questa seconda corrente interpretativa «L'architettura non esprime più una distanza, ma una presenza... permette di dare una realizzazione concreta a un sentimento che altrimenti non esisterebbe che allo stato latente... L'atto del costruire è quindi più importante del risultato, dell'edificio».
E, come è scritto nella Torah, una volta dato l'ordine, in realtà resta ancora tutto da fare : «Perché la costruzione riesca, dev'essere realizzata col cuore». Perché di per sé la costruzione sarebbe inutile: Dio non ha certo bisogno di una casa, mentre invece è l'uomo che ha bisogno di agire, di partecipare al concretarsi dell'azione divina sulla terra, con la costruzione del tabernacolo, alla quale egli è chiamato a contribuire con tutto sé stesso. «Il miškan è costruito con la partecipazione collettiva ed entusiastica del popolo... Non interessa solo i “grandi”, ma tutti vi sono coinvolti, uomini e donne, ricchi e poveri. E la loro generosità è tale che in due mattinate portano tutto il necessario...».
A Babele invece, pur non mancando le ricchezze e la dotazione di materiali pregiati, manca proprio questo: la partecipazione generosa e convinta di tutti.
Se alla torre di Babele sono costretti operai in un lavoro che non sentono loro, alla costruzione del tabernacolo partecipano convinti tutti, e sono chiamati dalla Torah “i sapienti di cuore”.
E non è tanto il desiderio di avvicinarsi al cielo o di dialogare con il cielo a essere condannato in Babele, bensì il fatto che in questo tentativo si manifesta un porsi sul piano di parità dell'umano col divino. Nel tabernacolo invece, e poi nel tempio, si manifesta la sottomissione dell'uomo a Dio.
Non è grazie a Israele che il tabernacolo trova posto nello spazio, bensì il contrario: grazie al  miškan «Isreale trova posto nel tempo». Viene trasportato in luoghi diversi e si inserisce nella storia. Come ha scritto Abraham Herschel: “esiste un regno del tempo; ivi lo scopo non è avere ma essere; non possedere ma donare; non regnare ma condividere; non vincere ma aderire” (Da: Le batisseurs du temps). Nel tabernacolo, nel  miškan, si trasmette una parola che dura nel tempo.  Come il tabernacolo ha accompagnato Israele nelle sue peregrinazioni, il  miškan custodisce la parola e la trasmette nel tempo e nel mondo. E, seguendo in quest'opera, la sinagoga permette ai figli di Sem di «compiere la loro missione di trasmissione del messaggio di Dio agli uomini, meglio di quanto farebbero con un monumento di pietra o una torre commemorativa». Quindi è la parola a primeggiare, manifestandosi nell'azione umana ma proveniente da Dio, secondo una scala di valori che non viene violata dall'arroganza che si può manifestare là dove la costruzione diviene strumento di autoglorificazione.
A conclusione, l'analisi di Banon indugia sul concetto di “incompiutezza”. Dove Babele resterà sempre incompiuta, ma congelata lontana nel tempo storico in quanto dissoltasi nella sua monumentalità per la confusione in cui è gettata, il fragile tabernacolo è sinonimo di persistenza nel tempo: esso scompare ma resta come “pegno in cambio della vita di Israele”. E nel midrash si stabilisce un collegamento tra il tabernacolo «costruito nel deserto migliaia di anni fa, e il tempio da ricostruire, facendo della dimensione del futuro, intrinseca alla costruzione, un sinonimo di speranza».

 

06/08/2014
Valutazione
Il testo esamina diversi “luoghi” biblici e altri testi della tradizione israelitica riguardo al confronto che impernia l'esplorazione compiuta nel volume da Banon, in tal modo avvicinandosi come “a spirale” al cuore dell'argomento, peraltro dichiarato sin dalla prime righe del testo.
L'edificio è frutto di intenzioni, modalità, materiali, rapporti tra gli uomini e tra questi e l'infinitamente Altro; frutto di aspirazioni e di fede, di riconoscimento dell'ordine divino o del tentativo di evaderlo.
In ogni caso l'edificio è intimamente collegato alla storia dell'uomo e ne testimonia pregi e difetti. Se i primi vertono sulla capacità di sottostare alle indicazioni divine con senso di servizio e solidarietà verso i fratelli, i secondi albergano nel desiderio di superamento, nella hybris che porta a distorcere i rapporti tra il creato e il Creatore, e tra gli esseri umani.
Il ragionamento di Banon e Derhy focalizza il tema del costruire al di fuori della logica entro la quale è spesso costretto, per ricondurre alle radici originarie del gesto e alla sua ispirazione prima.
Per questo fornisce importanti motivi di riflessione su quelli che sono gli atteggiamenti e le aspettative del costruire anche ai nostri giorni.
Si può constatare come le tematiche che attraversano tutta l'argomentazione sviluppata nel libro, non siano estranee anche  al modo di porsi oggi di fronte all'azione edificatoria, o artistica.
Ricorrono concetti quali “solidarietà”, “dono” , “dialogo”, “servizio”; e dall'altro lato, a questi giustapposti, “orgoglio”, “monumentalità”, “ambizione”... La dimensione della collaborazione e quella dell'imposizione, la comunità oppure l'esibizione di potere.
È come un viaggio a ritroso, alle fonti di quel che sta prima della decisione di costruire, mentre si cerca una risposta alla domanda “perché si compie un'opera”? La riflessione di Banon, espressione della cultura dei “fratelli maggiori”, non riguarda la chiesa, la sua architettura o le opere d'arte in essa contenuta. Ma, riguardando quanto precede le chiese, si propone come occasione di indagine sugli atteggiamenti umani di ieri, di oggi e di sempre; e come occasione di dialogo su  come le “cose” esprimano le intenzioni degli artefici, anche al di là di quanto questi vorrebbero manifestare con la loro opera.
Così Babele perde la sfida che lancia allo spazio e al tempo con quell'espressione di volontà di potenza che inevitabilmente contiene; e il tabernacolo, il luogo col quale Dio dialoga con l'uomo, che invece parla il linguaggio dell'accoglienza, risplende al di là della propria scomparsa, grazie alla Parola che si propaga nel tempo e nello spazio per inarrestabile forza propria.
 
 
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