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Un'avventura per l'arte sacra. Testi in L'Art Sacré scelti da P.-R. Régamey

Marie-Alain Couturier

» Leggi l’intervista a Achille Bonito Oliva
"Arte e architettura nel flusso della storia"

 
12/02/2013
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12/02/2013
Titolo: “Un’avventura per l’arte sacra. Testi in L’Art Sacré scelti da P.-R. Régamey”
Autore: Marie-Alain Couturier
Editore: Jaka Book (2011)
Numero pagine: 170
Prezzo: 18,00 euro
12/02/2013
Come scrive Maria Antonietta Crippa nel suo saggio introduttivo: «Questo libro offre al lettore italiano alcuni brevi scritti del padre domenicano Marie-Alain Couturier, organizzati e commentati dal confratello Pie-Raymond Régamey... Ci si propone innanzi tutto di rendere accessibili in questo modo le coordinate generali e le ragioni di fondo di valutazioni e scelte promosse in Francia nella prima metà del XX secolo sul tema dell’arte sacra di ambito cattolico, vale a dire sull’arte per i luoghi di celebrazione liturgica, da parte dei due domenicani, divenuti tanto celebri quanto in realtà poco conosciuti e compresi... Nocciolo centrale delle loro riflessioni è stato il dinamismo concettuale e pratico che lega arte, rito e sacro nell’attuazione di luoghi e opere per la liturgia di contesto cattolico...». Gli scritti di p. Couturier furono originariamente pubblicati nella rivista L’Art Sacré e sono stati ripubblicati e commentati dal p. Régamey nel 1970, nel volume “L’Evangile est à l’extrême. Disloquer les structures mentales dans l’Eglise”. Oggi essi non perdono di attualità, poiché nel rapporto tra Chiesa e mondo dell’arte permangono quegli aspetti difficili e problematici che il p. Couturier volle cercare di affrontare.
12/02/2013
Marie-Alain Couturier (Montbrison nella Loira, 1897 – Parigi 1952). Nato in una famiglia di appassionati d’arte, Pierre-Charles-Marie Couturier maturò la sua vocazione di pittore a Parigi dove entrò negli Ateliers de l’Art sacré dal primo dopoguerra. Nel 1924 insieme con Maurice Denis decorò la chiesa di Raincy che, progettata da August Perret, è una delle icone dell’architettura chiesastica moderna. Nel 1925 si fece novizio col nome di Marie-Alain. Continuò la sua opera artistica e nel 1937 assunse la direzione della rivista “L’Art Sacré”, insieme con lo storico dell’arte p. Régamey. Durante il periodo della guerra fu a New York, guida religiosa della locale comunità francese. Al suo impegno si devono realizzazioni importanti quali la chiesa di Notre Dame de Tout Grace di Plateau d’Assy (opere di Bonnard, Lurçat, Chagall, Rouault, Matisse, Richier), la chiesa del Sacro Cuore a Audincourt (opere di Bazaine, Barillet, Léger), la Cappella del Rosario a Vence (Matisse), la Cappella di Ronchamp e il Convento di La Tourette (Le Corbusier).
12/02/2013
«... il tempo, scorrendo, insegna molte cose. Dopo qualche anno siamo arrivati a vederci chiaro: non risolveremo i problemi dell’arte sacra. Né noi, né alcun altro. Lo ripeteremo candidamente: i problemi dell’arte sacra sono i problemi della cristianità. Nel momento in cui lo si capisce, si è colto l’essenziale; i mali dell’arte sacra sono i mali della cristianità diventati visibili come ferite che compaiono su un volto. “La Chiesa non ha bisogno di riformatori, la Chiesa ha bisogno di santi”, scriveva Bernanos. Lo stato presente dell’arte sacra ci giudica tutti, congiuntamente, indissolubilmente: realtà viva, mutevole, alla quale siamo tutti legati anima e corpo, dal Sommo Pontefice fino all’ultimo dei sacerdoti e dei battezzati.... Un popolo ha sempre artisti che merita. La rinascita o la morte dell’arte cristiana non è in prima istanza una questione di arte». (pag. 119)
12/02/2013
Il volume contiene articoli firmati da p. Couturier in L’Art Sacré, e in altre pubblicazioni, dal 1950 al 1954. Questi rappresentano un impegno a esprimere il messaggio cristiano attraverso l’arte, accogliendo l’estetica come dimensione sostanziale dell’essere umano. «Bisogna tenere duro – scriveva nel 1950 – continuare a ripetere che nell’arte non è l’intelletto a giudicare e a discernere, ma i sensi. Più precisamente l’intuizione sensibile e non il ragionamento. In materia d’arte non si giudica a seconda di ciò che si pensa, ma a seconda di come si sente. A seconda, cioè, di quello che si è». Un tema, questo, che percorre tutti i testi dell’A.: questi, prima che critico, è artista desideroso di condurre attraverso il linguaggio dell’arte la sua missione di sacerdote. E vive con lacerante intensità l’aspirazione alla purezza nel raccontare l’assoluto, che le espressioni artistiche possono ottenere con poetico vigore, pur a fronte di tanti ostacoli.
 
Couturier pone il tema dell’autenticità come primario e fondante. Per questo si scaglia in più occasioni contro “l’accademia” che con i suoi manierismi e col conformismo omologante tende a soffocarla. Vi contrappone una certa spontaneità: «Mentre una volta i nostri bisnonni realizzavano, senza nemmeno rendersene conto, porte e finestre, maioliche e ceramiche, tavoli e sedie, immagini e tappezzerie di gusto squisito, oggi i loro discendenti, anch’essi senza rendersene conto, realizzano faticosamente.... oggetti la cui forma e i cui colori dovrebbero farci provare disgusto... ». I primi operavano quali artigiani, i secondi operano nel mondo del conformismo che Couturier chiama accademico, e che ha molto a che vedere con quel che oggi si intende per “essere di moda”.
L’atteggiamento critico in lui prevale: nota che è esperienza comune incontrare la banalità,difficile e raro trovare espressioni geniali che per la loro stessa intensità si elevino verso la spiritualità.
 
Couturier si scaglia contro chi evita di scavare nell’animo, proprio e del tempo, per rivolgersi alla decorazione di carattere superficialmente consolatorio o comunque privo di originalità e quindi estraneo all’autentica ispirazione. Lamenta come, a partire dal XIX secolo, i grandi artisti non siano chiamati a realizzare opere per la Chiesa, mentre sono preferiti talenti “secondari”, mediocri, se non addirittura “fabbricanti e mercanti”. E stigmatizza il facile manierismo di architetture di basiliche importanti quali quelle di Lourdes, Fourvière, Lisieux oltre alle tante (centoventi nei primi anni ‘50) chiese nuove costruite nelle espansioni urbane di Parigi «senza che uno solo dei grandi architetti francesi ovunque stimati sia stato minimamente consultato».
Ne individua la ragione nella mancanza di cultura dei committenti ecclesiastici, che consegue «sia ai compiti sempre più estenuanti legati all’apostolato, sia alle crescenti specializzazioni delle attività culturali moderne». Oltre che alla diffusa scristianizzazione della cultura contemporanea, e all’influenza sulle gerarchie ecclesiastiche degli ambienti accademici che mirano ad assicurare commissioni ai loro protetti, e infine alla impetuosa evoluzione «delle forme artistiche dei maestri a partire dal 1850».
La soluzione, secondo Couturier, consiste anzitutto nel rifuggire dalla “accademia” per rivolgersi invece ai grandi maestri: a esempio porta le realizzazioni di Plateau d’Assy e di Vence, dove tra l’altro gli artisti chiamati sono stati disponibili a prestare la loro opera senza grandi pretese economiche, proprio perché avvertivano la “eminente dignità” dell’opera.
 
Si rivolge quindi alle obiezioni che sente mosse da parte del clero riguardo agli artisti: “Non fanno quel che vogliamo”... “Non hanno fede...”. E risponde: la personalità creativa dev’essere lasciata libera di creare e ricorda che tra l’ispirazione mistica e quella dei grandi artisti v’è una marcata analogia.
Comunque il committente deve saper scegliere, individuando quale sia l’artista più indicato per una certa opera... «Per quel lavoro Rouault sarà più indicato di Matisse.... E non chiederemo a un Perret quello che ci si può aspettare da un Le Corbusier». Senza contare che infine al sacerdote spetta un preciso dovere di ispirare l’opera, fornendo idee e temi: «I più grandi maestri vogliono assolutamente programmi definiti e non temono affatto le rigorose esigenze delle norme liturgiche».
La creazione artistica è come un parto «il nostro compito è di proteggerne la libertà, la purezza, la delicatezza sempre vulnerabili, di far questo a suon di amicizia, di rispetto e di preghiera».
Un altro dei temi su cui Couturier insiste è quello della “misura”: la poesia non ha bisogno di magniloquenza e la chiesa non è una reggia, ma un luogo che dev’essere sentito da tutti come proprio. Non la grandiosità, ma la purezza è in grado di esprimere il luogo ove ci si raccoglie per l’incontro col Signore: la povertà è da intendersi quindi come vera ricchezza.
E quando l’arte contemporanea si rivolge a forme astratte o a campiture di colore puro, e le superfici architettoniche sono lasciate spoglie come fanno Perret o Le Corbusier, si ottengono risultati di grande significato: «quest’arte moderna accusata di materialismo sarà riconosciuta, non nei temi, ma nei principi e nell’essenza, una delle più spirituali che la storia abbia conosciuto».
La ricerca di autenticità è rivolta anche all’arte che diremmo etnica: Couturier vagheggia la spontaneità delle opere pre-coloniali e nota come il semplice influsso culturale della civiltà occidentale, a volte persino dei missionari, abbia avuto l’effetto di snaturarle. Ma, così facendo, ovvero togliendo all’arte etnica la sua radice prima, la si strappa alla sua intrinseca religiosità, derivante dal fatto che per sua natura essa è espressione di “sacro mistero”. Un’eccezione a questo stato di cose è l’isola indonesiana di Bali, dove la cultura popolare si è mantenuta, e così tutti continuano a essere coscienti dei significati simbolici collegati ai segni impressi sui tessuti o incisi sui gioielli o manifestati nella danza. E ogni espressione artistica è sacra: «non esiste in effetti arte profana» anche laddove tratti soggetti legati alla vita quotidiana. «L’arte indigena qui è viva perché è sacra». E d’altro canto Couturier mostra come nell’autenticità e nell’interiorità dell’essere umano l’arte vera sia intrinsecamente sacra, perché espressione di quanto di più grande e bello risieda nell’animo umano.
 
A questo mondo autentico, che Couturier ravvisa anche nell’Europa dell’epoca medievale, si contrappone l’epoca materialista contemporanea che di per sé snatura non semplicemente l’arte, ma in generale il vivere cristiano. Nella cultura individualista sembrano impossibili le «forme rigorosamente comuni di sensibilità e immaginazione» che erano invece proprie di epoche più favorevoli alla vita di comunità: e senza quel comune sentire è arduo che si sviluppi un’arte propriamente sacra, poiché questa richiede condivisione.
 
Mancando il necessario ambiente culturale comunitario, ecco che solo a pochi eletti sembra restare la possibilità di attingere a espressioni sublimi, degne della religione.
Ma se le condizioni attuali ispirano piuttosto il pessimismo, il fatto stesso che la vera arte sia così intimamente legata alla religione lascia aperta la porta alla speranza: il miracolo dell’opera poetica è sempre possibile, come è sempre possibile l’autenticità della vocazione religiosa.
«...il popolo cristiano ha più che mai bisogno di capolavori, perché ne è stato crudelmente privato a lungo. Quando diciamo “capolavori” intendiamo veri capolavori, non quelli presi per tali nei nostri piccoli circoli ecclesiastici di mutua ammirazione verso cui, del resto, nessuno esterno a essi ha mai mostrato il minimo interesse».
12/02/2013
P. Couturier è passato alla storia per opere quali la cappella di Ronchamp, la cappella di Vence, la chiesa di Plateau d’Assy, dei quali fu “committente” nel senso più fecondo del termine: ne accompagnò con attenzione e con rispetto le realizzazioni. In questo modo ha dato esempio di quel che può essere una committenza informata, colta e capace di scegliere gli artisti e di ispirarli attraverso il dialogo ma senza influenzarli al punto di scalfire la loro libertà creatrice. “Lo Spirito soffia dove vuole”, ripete più volte nei suoi testi. È quindi non un teorico dell’arte o dell’architettura e questi suoi scritti hanno valore di testimonianza: sono stati pubblicati in momenti diversi e non costituiscono un “corpus” omogeneo, né tanto meno sono un’opera compiuta.
Ma la testimonianza di Couturier resta cruciale. La sua passione è totale. E la sua convinzione assoluta, che l’arte fosse lo strumento attraverso il quale si manifesta la verità dell’essere e quindi la sua intrinseca vocazione religiosa, fa sì che questa raccolta di scritti resti come qualcosa che ha la forza di ispirare proprio coloro ai quali è demandato, a loro volta, di ispirare le opere degli artisti.
Nel leggerli si ha chiaro quanto profondo sia il travaglio per arrivare a un’opera d’arte vera. Quanto seria e importante sia questa. Quanto fondamentale sia il rifuggire dalla banalità di facili etichette che magari sembrano chiarire il messaggio evangelico, ma spesso invece lo travisano poiché lo allontanano da quella adamantina forza che gli è propria.
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