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Dialogo o Babele? L'argomentazione si dipana secondo un confronto continuo tra il tabernacolo (miškan) e la torre ( migdal): il primo incarna il dialogo, la seconda è espressione di orgoglio che porta alla dissoluzione.
Secondo quanto espresso nel Pentateuco, il tabernacolo è compiuto per accogliere la Parola di Dio, la torre perché l'uomo intendeva “farsi un nome” ovvero acquisire fama nella storia.
Nella Genesi a lungo e dettagliatamente di parla del tabernacolo, mentre Babele è descritta con poche parole e in modo enigmatico. Sono le uniche due costruzioni di cui si riferisce nel Pentateuco, a parte l'arca di Noè. Ma tabernacolo e torre non sono fatti per essere abitati dall'uomo; infatti la seconda è intesa per innalzare l'uomo, il primo per accogliere l'alterità.
L'importanza del costruire – argomenta Banon - è evidente dal fatto che è questa l'azione che fa entrare l'uomo nella storia: prima che nascessero le città c'era solo preistoria. Con le città sorge la civiltà, che comporta il vivere in luoghi comuni ma in case proprie di ciascuno. E non a caso il modo di costruire e abitare esprime pure con chiarezza il tipo di società in cui si manifesta: oggi lo si vede per esempio nella società collettiva che si riflette nei kibbuz che erige, ed è diversa da quella collettivizzata imposta dal comunismo e rappresentata dai palazzoni monotoni e ripetitivi, a sua volta diversa da quella borghese delle società liberali con la sgargiante proliferazione di costruzioni che esprimono la ricchezza dei privilegiati.
E quali erano le società che hanno dato luogo a Babele da un lato e al tabernacolo dall'altro?
Nella traduzione ebraica il racconto sulla torre di Babele è intitolato “la generazione della dispersione”, che evidenzia di quella società l'incapacità di stare unita: la mancanza di solidarietà.
Ma entrambe le costruzioni pongono il problema del rapporto tra l'umanità e quel che la trascende.
E se da un lato c'è un santuario costruito per servire Dio secondo le sue indicazioni, ovvero frutto del rivolgersi del Creatore al creato, dall'altro c'è il tentativo dell'uomo di arrivare in cielo per raggiungere Dio con forze proprie. La torre non è necessaria per l'insediamento umano, ma soddisfa solo l'ambizione di “toccare il cielo”.
Per questo la Torah «non esalta» la costruzione delle torri (quali erano le ziggurat mesopotamiche usate come osservatori stellari) e «il giudizio negativo che esprime sull'impresa di Babele contrasta con la fierezza con la quale i popoli dell'epoca guardavano a costruzioni del genere». Ma queste erano intese a cancellare la separazione tra l'umano e il divino, e non potevano essere apprezzate nella sacra scrittura.
Non solo, nella costruzione della torre il singolo era ridotto a manodopera, inserito nella massa e finiva per avere un valore minore di quello attribuito a quanto produceva (il mattone era considerato più pregiato della vita dei lavoratori). Alla costruzione del  miškan invece si impegnano artigiani ognuno con la propria abilità, e lavorano il legno, le stoffe, le pelli, il ferro. Così che si compone un'alleanza tra i diversi elementi della natura (regno minerale, vegetale, animale), Dio e l'essere umano  che agisce seguendone le indicazioni.
Babele finisce anche per distorcere l'opera tecnologica: gli artefici di Babele, attribuendo a sé stessi il merito del lavoro che compiono, si innamorano della loro tecnologia, e finiscono per divenirne schiavi. Anziché celebrare la tecnica come dono ricevuto, se ne gloriano come frutto del proprio ingegno.
Per quanto anche Israele sia stata dotata di edifici importanti e centrali per la religione, quali il tempio di Gerusalemme, sostiene Banon, «l'ebraismo ha però affermato la superiorità di altri valori rispetto all'architettura: la vita, il tempo».
Laddove invece, chi perde di vista la gerarchia dei valori si inoltra sulla via della corruzione. Esempio di questo è Nimrod, il promotore della torre di Babele: prima pieno di buone intenzioni e dedito a offrire sacrifici a Jaweh poi, invaghito dei propri successi, li attribuisce solo a sé medesimo. «Per evitare tale deriva, Dio nega a Israele l'iniziativa di una costruzione e ordina di fabbricare il miškan».
Si pone quindi il problema se il tabernacolo sia necessario perché l'uomo non è capace di servire Dio col cuore e col pensiero e di concepire il culto se non in un luogo determinato, oppure se esso sia da considerarsi, in quanto forma materiale del culto, una superiore  manifestazione di fede. Il tabernacolo è visto da alcuni come dono offerto perché l'uomo non ricada nel culto al vitello d'oro, da altri è inteso come da sempre presente nel piano  di Dio per l'uomo. Secondo questa seconda corrente interpretativa «L'architettura non esprime più una distanza, ma una presenza... permette di dare una realizzazione concreta a un sentimento che altrimenti non esisterebbe che allo stato latente... L'atto del costruire è quindi più importante del risultato, dell'edificio».
E, come è scritto nella Torah, una volta dato l'ordine, in realtà resta ancora tutto da fare : «Perché la costruzione riesca, dev'essere realizzata col cuore». Perché di per sé la costruzione sarebbe inutile: Dio non ha certo bisogno di una casa, mentre invece è l'uomo che ha bisogno di agire, di partecipare al concretarsi dell'azione divina sulla terra, con la costruzione del tabernacolo, alla quale egli è chiamato a contribuire con tutto sé stesso. «Il miškan è costruito con la partecipazione collettiva ed entusiastica del popolo... Non interessa solo i “grandi”, ma tutti vi sono coinvolti, uomini e donne, ricchi e poveri. E la loro generosità è tale che in due mattinate portano tutto il necessario...».
A Babele invece, pur non mancando le ricchezze e la dotazione di materiali pregiati, manca proprio questo: la partecipazione generosa e convinta di tutti.
Se alla torre di Babele sono costretti operai in un lavoro che non sentono loro, alla costruzione del tabernacolo partecipano convinti tutti, e sono chiamati dalla Torah “i sapienti di cuore”.
E non è tanto il desiderio di avvicinarsi al cielo o di dialogare con il cielo a essere condannato in Babele, bensì il fatto che in questo tentativo si manifesta un porsi sul piano di parità dell'umano col divino. Nel tabernacolo invece, e poi nel tempio, si manifesta la sottomissione dell'uomo a Dio.
Non è grazie a Israele che il tabernacolo trova posto nello spazio, bensì il contrario: grazie al  miškan «Isreale trova posto nel tempo». Viene trasportato in luoghi diversi e si inserisce nella storia. Come ha scritto Abraham Herschel: “esiste un regno del tempo; ivi lo scopo non è avere ma essere; non possedere ma donare; non regnare ma condividere; non vincere ma aderire” (Da: Le batisseurs du temps). Nel tabernacolo, nel  miškan, si trasmette una parola che dura nel tempo.  Come il tabernacolo ha accompagnato Israele nelle sue peregrinazioni, il  miškan custodisce la parola e la trasmette nel tempo e nel mondo. E, seguendo in quest'opera, la sinagoga permette ai figli di Sem di «compiere la loro missione di trasmissione del messaggio di Dio agli uomini, meglio di quanto farebbero con un monumento di pietra o una torre commemorativa». Quindi è la parola a primeggiare, manifestandosi nell'azione umana ma proveniente da Dio, secondo una scala di valori che non viene violata dall'arroganza che si può manifestare là dove la costruzione diviene strumento di autoglorificazione.
A conclusione, l'analisi di Banon indugia sul concetto di “incompiutezza”. Dove Babele resterà sempre incompiuta, ma congelata lontana nel tempo storico in quanto dissoltasi nella sua monumentalità per la confusione in cui è gettata, il fragile tabernacolo è sinonimo di persistenza nel tempo: esso scompare ma resta come “pegno in cambio della vita di Israele”. E nel midrash si stabilisce un collegamento tra il tabernacolo «costruito nel deserto migliaia di anni fa, e il tempio da ricostruire, facendo della dimensione del futuro, intrinseca alla costruzione, un sinonimo di speranza».

 
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